Il 31 di ottobre si organizzano visite che trattano di storie “truculente” e misteriose: fantasmi, sepolture, delitti. Insomma, storie di mostri, storie di battaglie.
Del resto, la festa di Halloween, che risale a un’origine irlandese, viene spesso criticata perché considerata una moda importata solo di recente dagli Stati Uniti.
In realtà si tratta di una tradizione che in Romagna si perde nella notte dei tempi.
Le tradizioni in Romagna
Infatti, la sera di Ognissanti, cioè alla vigilia del 2 novembre vi era l’usanza di allestire la casa in attesa del ritorno dei defunti che, per una notte, facevano visita ai congiunti.
Si lasciava la tavola apparecchiata per loro, si accendeva una candela per guidarli nell’oscurità e si preparavano i letti con lenzuola pulite per consentire loro un fresco riposo tra le mura domestiche.
La mattina dopo ci si recava in chiesa e si raccoglievano delle offerte in cibo da donare ai poveri; questi ultimi offrivano in cambio una preghiera ma, se non avessero ricevuto nulla, avrebbero augurato la cattiva sorte ai reticenti (forse un gesto antenato del nostro “dolcetto o scherzetto”?).
Naturalmente, non potevano mancare personaggi spaventosi che solleticavano l’immaginario collettivo.
Per esempio, il Mazapégul , una sorta di folletto dispettoso, conosciuto soprattutto nella zona di Forlì.
La Piligrèna ovvero una fiammella o fuoco fatuo identificato spesso con un fantasma che emergeva dalle tombe del cimitero.
Ancora, la Borda, spettro malevolo delle paludi, che spaventava moltissimo i bambini.
Il mostro di Ravenna
Anche Ravenna può annoverare una leggenda terrificante, legata al cosiddetto Mostro di Ravenna.
Si narra che il giorno 8 marzo 1512 nacque una creatura eccezionalmente deforme, frutto di una relazione clandestina tra una monaca e un frate.
Ovviamente questa unione suscitò la ferma disapprovazione divina, che punì in maniera così terribile gli sventurati e blasfemi genitori.
Le cronache dell’epoca descrissero la creatura orrenda in varie maniere.
Un essere a due zampe, ma a volte con una zampa sola, con le squame sulle cosce (o sull’unica coscia, a seconda della versione).
Dotato di ali di pipistrello al posto delle braccia, con un terrificante corno sulla testa e un terzo occhio su un ginocchio.
Il petto costellato dalle lettere dell’alfabeto YXV, i genitali ermafroditi ed altre amenità del genere.
Un mostro famoso
Diversi cronisti dell’epoca descrissero il mostro, ognuno di loro arricchendo i racconti con le descrizioni più disparate.
In questo modo la leggenda di questo essere così terribile varcò i confini regionali e nazionali mantenendosi viva anche nei decenni a seguire.
Gli scritti erano corredati di disegni che mostravano le deformità narrate.
Perciò, possiamo trovare testimonianze sia da autori ravennati come Girolamo Rossi, uno storico del XVI secolo, ma anche da parte di scrittori in Spagna, Francia, Germania, a Basilea come a Parigi.
Si conserva perfino un disegno del grande Leonardo Da Vinci!
Suscitò perfino l’interesse del celebre naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, da sempre collezionista di curiosità, piante e animali esotici.
Tutti volevano sapere, tutti volevano conoscere la storia del Mostro di Ravenna.
Il papa di allora, Giulio II, Giuliano della Rovere, dispose che il neonato venisse immediatamente abbandonato in pineta.
Infatti, non poteva tollerare che questo essere ripugnante potesse sopravvivere, testimonianza del peccato che si era consumato all’interno della chiesa ravennate.
Inoltre, si riteneva che l’apparizione di questa creatura orribile fosse di cattivo auspicio, l’annuncio di una disgrazia che si sarebbe verificata presto in città.
E’ qui che iniziano le nostre storie di mostri, storie di battaglie.
La sventura si abbatte in città
E infatti… Poco più di un mese dopo, esattamente la domenica di Pasqua, 11 aprile 1512, si svolse nei pressi di Ravenna lungo la riva del fiume Ronco, la battaglia di Ravenna.
Fu uno degli scontri più cruenti dell’età moderna, il primo a vedere l’utilizzo delle artiglierie pesanti.
La “Pasqua di Sangue” vide contrapporsi la Lega Santa, composta dalle truppe dello Stato Pontificio, della Repubblica di Venezia, della Spagna e della Svizzera contro quelle del Regno di Francia e del Ducato di Ferrara.
Tra i 40 o 45 mila soldati che si fronteggiavano si contarono molte vittime (si dice tra i 5.000 e i 20.000 morti!) tra cui il condottiero francese Gaston de Foix, duca di Némours e nipote del re Luigi XII, vincitore del conflitto ma caduto in battaglia.
L’eco dello scontro e dei suoi effetti devastanti venne ricordato per anni.
Tra gli altri, anche Ludovico Ariosto, nel suo ruolo di poeta di corte e presente sul campo di scontro, aveva potuto constatare la potenza e l’efficacia dei cannoni di Alfonso d’Este.
Da quel giorno le arti della guerra cambiarono completamente la loro modalità, divenendo sempre più brutali.
Il sacco di Ravenna
A questa vittoria da parte dei francesi e degli estensi seguì un terribile saccheggio.
Le truppe entrarono in città, riuscendo a oltrepassare le mura presso la Porta San Mama e la devastarono per vari giorni,.
Oltre al sacco di oggetti preziosi, si aggiunsero le innumerevoli violenze che vessarono la popolazione.
La testimonianza della battaglia
Il luogo in cui si svolse la battaglia è ancora oggi visibile lungo l’argine destro del fiume Ronco, vicino all’abitato di Madonna dell’Albero.
Si tratta della Colonna dei Francesi, una scultura commissionata nel 1557 (o forse nel 1562) dal cardinale Pietro Donato Cesi, vescovo di Narni e presidente della Legazione di Romagna.
La stele intende commemorare i caduti di entrambe le fazioni.
È composta da un pilastro a base quadrata, sormontato da un capitello ionico su cui poggiano un dado e una sfera.
La forma, quindi, vuole essere un’imitazione dell’impugnatura di una spada, conficcata in quel terreno che ha visto scorrere tanto sangue da entrambe le parti.
La colonna è decorata da bassorilievi che raffigurano arabeschi, delfini, festoni, ovali, fiori, frutti e teste di animali.
E’ arricchita da iscrizioni in latino, che restituiscono la data e la descrizione della battaglia e del saccheggio che ne è seguito.
Le decorazioni del monumento
Vi sono diversi rimandi all’acqua, dati da figure di animali acquatici, da mostri marini e da onde.
Due mascheroni, emblemi di tritoni con una lunga barba che si trasforma in vegetazione, rappresentano il territorio ravennate.
Forse sono i probabili richiami ai due fiumi, il Ronco e il Montone che circondavano la città, e alla campagna teatro del campo di battaglia.
Gli altri motivi decorativi presenti sulle quattro facce del pilastro, composizioni di coppe, anfore, vasi antichi e candelabre, derivano dalla cultura artistica classica imperiale.
In particolare, fin dalla metà del ‘400 alcune di queste decorazioni si ammiravano su sei elementi in marmo custoditi presso la Basilica di Santa Agnese fuori le mura a Roma.
Gli artisti le riprodussero durante tutto il Cinquecento, come dimostrano alcuni studi, disegni e bozzetti eseguiti all’epoca.
Vennero introdotte in Romagna dalla metà del Quattrocento ed utilizzate, qui come altrove, per ornare elementi architettonici, molti dei quali aventi una funzione funebre, ma anche rese in pittura nelle tavole e negli affreschi.
Il monumento funebre di Gaston de Foix
Le rappresentazioni di elmi, scudi e pugnali sono presenti anche nel monumento funebre dello sfortunato vincitore della battaglia, il condottiero Gastone de Foix.
Scolpito dall’artista Agostino Busti, detto il Bambaia, subito dopo la sua morte, oggi è collocato a Milano presso il Castello Sforzesco.
Si possono ammirare alcune parti del monumento funebre a Palazzo Madama di Torino, che ho descritto in un articolo del blog.
Simboli e allegorie
Sulla stele ci sono anche riferimenti legati alla religione cristiana e al sacrificio eucaristico.
È interessante notare che sulla superficie sono presenti delle decorazioni di evidente carattere simbolico che, secondo il gusto dell’epoca, privilegiava un certo ermetismo.
Perciò, risultavano difficilmente leggibili ed interpretabili da coloro che non facevano parte delle élite culturali umanistiche del Cinquecento.
Un’autocelebrazione?
La Colonna dei Francesi era stata deliberatamente dedicata ai morti di quella battaglia.
Tuttavia, alcuni studiosi ipotizzano che vi fosse un’ulteriore motivazione del cardinale Cesi per la commissione del monumento.
Forse voleva celebrare la fine della guerra civile e la conclusione delle faide tra guelfi e ghibellini ravennati, ottenuta grazie alla mediazione dell’ecclesiastico.
Infatti, mentre sulla colonna non figura alcuna insegna papale, sono presenti invece quelle del committente, fautore della pace desiderata.
Il massiccio pilastro in pietra doveva sottolineare le alte qualità e le virtù del prelato e benefattore della città.
Il suo nome di battesimo era Pietro, identificabile come la “pietra angolare” che poteva sostenere le ambizioni di pace e di unione delle varie fazioni.
E il nostro Mostro di Ravenna?
La leggenda vuole che, nonostante il suo abbandono in pineta, riuscì a sopravvivere.
Inaspettatamente, si presentò sul campo di battaglia, per godere dello spettacolo offerto dalle truppe avverse che si stavano massacrando incessantemente con le nuove armi da combattimento.
Si racconta anche che venne visto sulle mura della città, appagato dalla visione del dramma operato dalle milizie che distruggevano palazzi e chiese, demolivano abitazioni, causavano incendi, uccisioni, stupri, rapimenti, procedevano con furti nelle chiese e nei monasteri e annichilivano la popolazione, in una sorta di vendetta per il crudele trattamento che aveva subito solo un mese prima